Tra le grandi città italiane, Roma è certamente quella che da Palazzo ha preso meno. Palazzo beninteso, come sede di potere, di ricchezza e di cultura, quindi nel nostro campo, di tradizione della buona tavola, di scienza del banchetto, di gastronomia come scuola di gusto intelligente ed equilibrato. Meno di quanto hanno ereditato, a pezzi e bocconi (è il caso di dirlo) Palermo, Napoli, Firenze, Venezia, Ferrara e Mantova, le piccole capitali di regni e signorie rinascimentali. Eppure è proprio qui che Bartolomeo Sacchi detto “il Platina”, teorizzo la misura e il buon senso a tavola come nella vita, richiamandosi agli scritti dei classici che proprio in quei tempi tornavano di moda (correva l’anno del Signore 1475). Non poteva non chiamarsi “de honesta voluptate et valetudine” cioè il giusto piacere e la buona salute, il libro di buoni propositi scritto all’ombra del Vaticano (il Platina, ex soldataccio di ventura, ex cuoco, era allora bibliotecario di Sisto IV). Né alcuno dei successori ha raccolto il messaggio di Bartolomeo Scappi, cuoco di Pio V e autore di un testo storico della nostra gastronomia: “l’opera dell’arte di cucinare (1570)” starebbe addirittura all’origine delle cucine regionali italiane.
Forse dipende proprio dal
rapporto potere-gastronomia la peculiarità “plebea” della cucina romana. Qui, a
differenza delle piccole capitali già citate, il potere è stato troppo
“ballerino” ed effimero, seppur assolutistico, per poter influenzare il costume
gastronomico dell’Urbe. Che rimase per secoli – Roma è stata a lungo capitale
mondiale del turismo religioso, come lo è oggi
Scusateci ma per problemi
climatici siamo costretti a far partire con ritardo il menu del centro
Italia.
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