Sandokan – storia di camorra. Intervista ad Antonio Catania

di Antonella Lattanzi

 

Riporto così com’è, senza alcuna introduzione se non la quarta di copertina del meraviglioso libro di Nanni Balestrini dal quale è nato questo stupendo spettacolo, l’intervista ad Antonio Catania. Non me la sento di introdurla in alcun modo, e non perché non ne abbia voglia (ho così tanto da dire a proposito del libro e dello spettacolo che gli dedicherò un articolo a parte), ma perché voglio lasciare completamente la parola ad Antonio Catania, che sa raccontare, in questa intervista, tutto l’immenso valore di Sandokan – storia di camorra. Non si potrebbe dire meglio. È un’opera che fa accapponare la pelle, che fa arrabbiare, che fa ridere. E Catania, parlandone, mi ha sconvolto, per la sua ricchezza interiore, per la sua disponibilità, per la sua sincerità, per la passione che traspare da queste parole. Una passione vera, non comune, un amore autentico per l’arte, per la vita e, in particolare, per l’opera meravigliosa di Balestrini.

Ho ritrovato in Catania non solo un bravissimo attore (che chi di noi non conosce, per spettacoli teatrali e film come Kamikazen - Ultima notte a Milano, Mediterraneo, Puerto Escondido, Sud, In barca a vela contromano, Vesna va veloce, La cena, Il consiglio d’Egitto, Chiedimi se sono felice, L’amore è eterno sinchè dura, La cura del gorilla e molti altri), ancora più valorizzato e valoroso, in teatro, per l’atmosfera che riesce a creare, come un mago, all’improvviso, per il modo in cui si muove sul palco, per i suoi gesti, le espressioni, il tono con cui si riferisce a ogni persona del pubblico. Un attore che, nel buio della sala, entra in scena e accende una storia, che possiamo vedere con gli occhi come se accadesse davvero.

E poi ho scoperto in lui una persona particolare. Non mi aspettavo tanta disponibilità e sincerità, tanta passione, lo ripeto ancora una volta. Mi ha sconvolto, e non perché credevo Antonio Catania una cattiva persona, ma perché non lo immaginavo così grande.

Devo dirlo, perché lo voglio ringraziare.

Un bellissimo libro, quindi, Sandokan, per il quale intervisterò tra qualche giorno, con immenso onore, il grande Nanni Balestrini, e del quale – insieme allo spettacolo – parlerò presto in un articolo. Un libro che non si può dire in due parole ma si deve leggere, e si deve vedere, e si può ascoltare in questa intervista. Un bellissimo spettacolo stupendamente creato da Balestrini; adattato da Nello Correale e Catania stesso (e vi assicuro che non dev’essere stata imprese facile!); magistralmente interpretato da Antonio Catania, che ce lo racconta sulla scena, a tu per tu con il pubblico, riuscendo sera dopo sera a creare daccapo – e non a risuscitare – la magia che di solito compenetra attore e pubblico solo in pochi, epifanici, momenti eletti; accompagnato, ma non solo, quasi co-interpretato, dalla musica dal vivo di Peppe D’Argenzio, che crea, anch’essa, emozioni pure. Uno spettacolo che val la pena di correre, non di andare, a vedere. Cui bisogna assistere, come un evento per la vita. Due persone uniche, Balestrini e Catania. La bellezza emozionante e splendida dell’arte.

Tutto insieme in un Evento vero e proprio, uno spettacolo che con la sua sincerità, con la sua semplicità spiazzante, ci prende allo stomaco e al cuore, e che trova in Balestrini un autore dalla bravura disarmante (qui come altrove, Balestrini è stato ed è uno dei fautori della cultura europea, una persona dalla quale non si può prescindere quando si parla di arte, di letteratura, un talento vero, vivo, qualcosa di eccezionale, di meraviglioso di cui veramente non sono degna di parlare), e in Catania un attore tout-court, capace di momenti aspri, altamente emotivi, commoventi, violenti, splendidamente ironici. Sandokan, una lunga poesia, un poema d’amore, di guerra, di vita. Lacerante e disastroso, appassionante e sconvolgente, quest’opera trova in Balestrini e Catania un equilibrio bellissimo. Uno spettacolo, e un libro, che stracciano i luoghi comuni e la barriera di omertà cui ci rendiamo complici ogni giorno, ed è inutile che ci ostiamo a fare finta che non sia così. Non uno spettacolo pesante, però, dal quale si esca logorati e appesantiti, ma piuttosto un’ora di profondo contatto con noi stessi e con la parte più bella, più profonda, più unica, di noi e della cultura. Uno spettacolo che, nonostante tratti un tema tanto tragico, pure ci lascia con un profondo senso di felicità. Di rabbia, certo, verso il mondo che siamo chiamati a cambiare. Ma di felicità, ripeto, e di fiducia verso le immense capacità del talento umano. Vedrete cosa si può fare con l’arte. Vedrete cosa si deve fare.

 

La storia

“In un paese degradato del Casertano, per sfuggire alla misera vita contadina dei padri, un gruppo di giovani sceglie la scorciatoia della delinquenza. Decisi a non arrestarsi di fronte a nulla, in breve tempo essi fanno strage dei camorristi rivali e sottomettono tutti i clan della zona. Impadronitisi di ogni traffico illecito, dagli appalti alla droga, arrivano a creare un immenso impero economico internazionale, piú potente e ricco della stessa mafia siciliana. La folgorante ed efferata parabola si conclude con una sanguinosa guerra interna, con l'eliminazione reciproca dei protagonisti e con la cattura finale di Sandokan, il feroce boss sopravvissuto. Testimone di queste gesta criminali realmente accadute è un ragazzo del paese, che è cresciuto in mezzo ad esse ma ha rifiutato di seguire quella strada, e che sceglie da ultimo di lasciare per sempre una terra irrimediabilmente devastata. I lettori dei romanzi-documento di Nanni Balestrini ritrovano qui le caratteristiche della sua scrittura, la resa della realtà attraverso la messa in scena di un linguaggio che esprime l'energia del parlato e lo stile epico, questa volta applicato a una saga del male, non estranea al clima di generale disfacimento e ai miraggi di facile ricchezza che continuano a infestare il nostro Paese.”[1]

 Lo spettacolo
Al Piccolo Jovinelli di Roma

dall’11 al 28 gennaio 2007[2]

Antonio Catania

in

Sandokan

dal romanzo di Nanni Balestrini

Musiche dal vivo di Peppe D’Argenzio

Adattamento e Regia di Nello Correale

Luci – Laura de Bernardis

 

 L’intervista ad Antonio Catania

 

 

A.L.: Una delle prime cose che mi ha colpito in assoluto di Sandokan è il titolo. Siamo abituati, infatti, a pensare che, se un’opera è titolata con un nome proprio, questo sia appunto il nome del protagonista. In questo spettacolo, invece, il protagonista è tutt’altro rispetto a Sandokan, o meglio, potremmo dire che i protagonisti sono due: il ragazzo senza nome che racconta la storia – occhio interno e allo stesso tempo esterno alla vicenda – e lo spietato, il mitico malavitoso Sandokan, che c’è, tutto il tempo, che si percepisce come presenza asfissiante sulle vite di tutto il paese ma che, allo stesso momento, non c’è mai.

A.C.: Sandokan è la figura più conosciuta in questa vicenda dei casalesi, anche perché nella storia che racconto io è l’ultimo grande boss. Alla fine, infatti, Sandokan viene arrestato, e con lui finisce un po’ questa parabola camorristica (anche se poi continuerà anche con altri capitoli, purtroppo). Sandokan è la figura più emblematica anche perchè poi diventa quello più spietato, e inoltre ha questa somiglianza fisica con Kabir Bedi, per cui si diceva che al tempo che c’erano le sciarpe del Napoli con scritto Sandokan. Col tempo, la sua è diventata una figura anche mitica, allora Balestrini ha pensato di usarla, di scriverne. Anche nel libro, infatti, Sandokan c’è e non c’è. Il libro inizia con l’arresto di Sandokan, introducendo così la situazione e la storia che stiamo per ascoltare. In realtà questo è l’ultimo capitolo, ma Nanni Balestrini ha deciso di inserirlo all’inizio come fosse la copertina come a dire: ecco, questo è il mondo di Sandokan. Poi parte tutta la storia sul paese, sulle famiglie criminali. Però è vero che il fatto che Sandokan non ci sia colpisce – perché alla fine in sostanza non c’è –.

 

A.L. Dicevamo che il primo capitolo del libro comincia proprio con tutta la pena di questo boss, quasi umanizzandolo (mai giustificandolo!), e dipingendo la caduta di un eroe (in questo caso, un eroe del male), un imperatore, la morte di un dio cattivo. Ma sempre un dio.

A.C: E’ una scena importante, infatti stavo pensando di inserirla anche nello spettacolo, non all’inizio, ma verso il penultimo capitolo. Pensavo di re-inserire un pezzo dell’avvio del libro, in modo che possa concludersi anche questa vicenda che in qualche modo incuriosisce. Nonostante, da un certo punto di vista, esplicitare l’ultima scena non è necessario nell’economia dello spettacolo, perché si capisce quello che avviene, in realtà includerla è comunque opportuno, dato che il pubblico, probabilmente, vorrebbe saperne qualcosa di più: perché quest’uomo si chiama Sandokan, chi è… Per questo, probabilmente, adesso a poco a poco inserirò dei nuovi pezzi nello spettacolo, dato che per adattare il libro al teatro abbiamo dovuto tagliarlo molto.

 

A.L. Questo è un altro punto su cui vorrei soffermarmi. Il signor Balestrini diceva che in un certo senso Lei fa un nuovo spettacolo ogni volta. Credo sia perché ha la facoltà di aggiungere e togliere di volta in volta, a seconda anche del rapporto che sia crea col pubblico, dei nuovi episodi tratti dal libro, in un primo tempo lasciati da parte. Da questo punto di vista, allora, l’evoluzione della rappresentazione è un continuo farsi e rifarsi che cambia nelle Sue mani. Mi sembra bellissimo.

A.C.: Devo dire comunque che tutto quello che faccio io è nel libro. E’ scritto tutto lì dentro, anche il modo di interpretarlo è proprio del libro: il grottesco, il poetico, è tutto lì nel libro. Noi volevamo fare una cosa più essenziale, allora abbiamo dovuto tagliare, ridurre sempre. Nella lettura, infatti, è bello che ci siano delle ripetizioni, ribadire ha anche una funzione narrativa. È poesia anche quella: il ripetersi delle parole serve a costruire un suono, diventa come una litania. Inoltre, in questo modo il problema viene posto in mane molto chiara, ripetendolo più volte. Invece, quando sei sul palcoscenico, basta un’espressione, o il modo come dici qualcosa, per comunicare lo stessa sensazione, e quindi è chiaro che le ripetizioni che in parte non erano necessarie. Perciò abbiamo tagliato, per ridurre all’essenziale. Ma ci siamo accorti, a furia di tagliare, che lo spettacolo durava cinquanta minuti, quindi forse altri dieci minuti si potevano aggiungere. Allora abbiamo guardato quali erano le cose che avevamo tolto con un po’ di rammarico, che forse ci potevano stare, sulle quali eravamo in dubbio, e poco a poco le stiamo re-immettendo nello spettacolo. Per esempio, ieri [sabato 12 gennaio, n.d.r.] ho introdotto una parte che avevamo tolto, ecco perché Nanni Balestrini ha detto che tutte le volte è uno spettacolo diverso, ed è vero, perché ogni spettacolo è un’esperienza diversa: a volte ti capita di essere più tranquillo, o più rilassato, magari la prima sei un po’ più teso, e anche il pubblico reagisce diversamente, ci sono delle sfumature. Allora ieri ho inserito un nuovo pezzettino, stasera vorrei reinserirne un altro, quindi tutte le volte può essere veramente diverso.

 

A.L.: La traduzione dalla letteratura al teatro, infatti, ha una serie di caratteristiche molto interessanti. Il libro è sicuramente molto narrativo, proprio perché è un libro ha un ambiente, una scenografia, dei suoni, una serie di “aiuti” che gli danno le parole. Mentre, quando si è sul palco, soprattutto in questo caso in cui non si ha scenografia, ma l’attore è solo con la musica, si istituisce questa magia col pubblico. E questa magia la crea l’attore, la crea Lei, dipingendo nell’occhio dello spettatore tutta la storia.

A.C.: Sì, infatti in questo modo lo spettacolo diventa un racconto, perché tutto sta nella maniera in cui questo racconto viene presentato. Io credo di aver rispettato il più possibile quella che è la scrittura di Balestrini, però sarebbe interessante scoprire i diversi modi di interpretare il testo. Di fatti Balestrini ieri mi ha detto, Mi hai fatto vedere la cosa in un modo diverso., anche perché forse ognuno di noi ha una propria percezione, quando legge un libro, se lo immagina in qualche modo personale. Questo è anche il bello della lettura: hai questa possibilità di immaginarti tutto, di vedere e vivere la storia, immagini anche i suoni, il suono delle parole, e cominci a immaginare anche le persone che parlano. In questo modo, ti crei una gerarchia del libro che probabilmente è differente da persona a persona.

 

A.L.: L’interpretazione personale senza la snaturazione, lo spazio alla fantasia intesa come creazione. Proprio questo è il bello della letteratura, secondo me.

A.C.: Io in questo senso ero assolutamente convinto di aver fatto quello che c’era nel libro, però evidentemente esistono anche delle sfumature diverse, che sorprendono. Chissà, molte cose che io ho interpretato in un modo, lui le ha interpretate in un altro, e viceversa. È questo il bello, poi, della trasposizione, di quando un fatto artistico viene riversato in un altro fatto artistico e avviene questo scambio tra letteratura e teatro, letteratura e cinema. Quando si fanno i film dai libri, per esempio, di solito quei film non sono mai così belli: è difficile che un film sia altrettanto bello, proprio perché il libro possiede tutta una dimensione di fantasia che ci metti tu in prima persona. Per assurdo, invece, quando ti trovi davanti a un libro brutto, magari riesci a farne un bel film, perché ci aggiungi tutto quello che il libro non aveva.

In questo caso, nel caso di Sandokan, invece, secondo me esistono tantissime potenzialità. La storia di Balestrini potrebbe essere un bellissimo film, a patto, naturalmente, di rispettare quello che è il suo linguaggio poetico, che c’è ed è molto forte. Ed è quello che fa la differenza tra Sandokan e un libro di storia, di cronaca, di fatti nudi e crudi. La caratteristica che fa unico questo libro è la dimensione poetica, il linguaggio, il fatto di scrivere senza punteggiatura…

A.L.: … come il respiro…

A.C.: Sì, scrivere senza punteggiatura vuol dire che la devi mettere tu. Tu leggi e devi cercare di capire come sono i ritmi. Poi non è vero che non c’è la punteggiatura, la punteggiatura esiste eccome. È come se il libro fosse tutto d’un fiato, come se ci fosse un’urgenza di raccontare queste cose, quindi tutto ad un fiato tu vuoti quest’urgenza, tutto ad un fiato… Le parole allora sopraggiungono una dopo l’altra, una dopo l’altra, in una sorta di memoria in cui tutto arriva a flash, a immagini. Io mi sono innamorato della sua scrittura. Mi piace tutto.

 

A.L.: Come diceva Lei, appunto, questo libro è un libro di poesia ma anche di ironia e di umorismo. Quindi, a momenti molto drammatici in cui attore e pubblico sono estremamente compresi dal punto di vista emotivo, seguono momenti di riso, che è, sì, un modo per rilassarsi, per stemperare, ma anche qualcos’altro. Qui non si ride, infatti, per qualcosa di divertente. Si ride, come direbbe Pirandello, per il “sentimento del contrario”, per qualcosa che in realtà è terribile.

A.C.: Sì, per esempio io oggi vorrei aggiungere nello spettacolo un episodio che ieri non c’era. Siamo nel periodo in cui in televisione danno questa telenovela, Anche i ricchi piangono. Allora tutti in paese la seguono e quando c’è la telenovela non c’è nessuno per strada: per due ore, il paese è vuoto. Pure il prete la segue. Arriva il primo di settembre, giorno della processione, con la madonna, il corteo, tutti quanti per strada che cantano, tuta la gente in festa, come sono di solito le feste patronali. Solo che quel giorno c’è anche la puntata della telenovela. Allora il prete decide di rimandare la processione e invece di far uscire la madonna alle sette, come tutti gli anni, la fa uscire alla nove, così tutti ci possono andare. È un modo veramente anche molto grottesco di interpretare la religione. Evidentemente esiste una complicità su questo fatto, come se la madonna potesse comunque aspettare, no?, perché tanto la cosa più importante è la telenovela. Anche qui diventa una gerarchia… Allora anche in un posto così, dove la religione può esser sentita in maniera così forte, dinanzi a una cosa più grossa, più importante (che in realtà è soltanto una telenovela!), passa in secondo piano pure la madonna, capisci? Questa è una cosa che fa sorridere.

 

A.L.. Ed è anche una cosa che fa riflettere…

A.C.: Sì, è anche una cosa che ti dà la misura di quanto questo posto possa essere arretrato.

 

A.L.: Infatti colpisce molto la mentalità della gente. Due sono le alternative per chi abita in questo paese. O si va via, o si rimane. Poiché se si rimane, però, nella legalità si può rimanere solo braccianti, contadini, muratori, i genitori aspirano a che i figli se ne vadano, perché non vogliono che si ritrovino a condurre la loro stessa vita, povera e squallida. Coloro che rimangono, però, possono operare anche un’altra scelta. La scelta della criminalità. Anche perché quelli che diventano muratori, per esempio, non hanno nessuna garanzia, nessun orario di lavoro, nessuna pensione. Dice Balestrini: lavorano sinchè muoiono.

A.C.; Sì, questa è una realtà purtroppo molto diffusa nel sud in generale, dove le regole sono poche, non sono rispettate. Già al nord è difficile, figuriamoci al sud. Poi ci sono poche opportunità di lavoro, per cui tu sei costretto a prendere quello che ti capita. Alla fine non hai possibilità, non hai nessuna prospettiva, non hai niente, sei quasi obbligato in un certo senso ad andare con le persone che ti garantiscono qualche cosa. Organizzate, forti, sono uno stato nello stato. Questo racconto, infatti, non è poi la scelta individuale di questo un ragazzo: sono piuttosto i suoi genitori a decidere che a lui non debba toccare questo tipo di vita. In un certo senso, allora, il merito è anche in sostanza della famiglia, che ti deve salvaguardare, che non vuole che tu diventi come gli altri, e ti manda a studiare fuori. Allora, ci vuole anche la fortuna di appartenere una famiglia che, per quanto umile, di contadini, cerchi comunque di evolversi culturalmente, socialmente, sempre dentro le regole, dentro la legge: in una maniera onesta. Di insegnare l’onestà, insomma. Una volta era normale, era il punto di arrivo di tutti, tutti volevano essere onesti. Poi, poco a poco, ti accorgi che a essere onesto sembra quasi che sei uno scemo, che sei un fesso, che perdi tutte le occasioni… Oggi essere onesti è considerato un po’ da stupidi, perché se sei onesto cosa fai?, non fai niente, non combini niente, e soprattutto vedi che i furbi sono quelli che vanno avanti, quelli che hanno gli appoggi, hanno le raccomandazioni, hanno le cose. E ti accorgi sempre più, crescendo, che vai incontro a delusioni, e che comunque ci sono delle regole, solo che sono altre regole… Roma, per esempio, è una città che funziona più o meno in questo modo, sul concetto di “amico”, “figlio”, sul nepotismo. Questa, nel piccolo, è una regola abbastanza strana, che ti obbliga a mantenere rapporti falsi, a ingraziarti le persone “importanti”, a essere sempre disponibile, a ricambiare… Ormai ce l’abbiamo proprio dentro di noi, forse discenderà dall’epoca in cui eravamo divisi stati e staterelli che tra di loro avevano delle relazioni commerciali, politiche… Siamo sempre lì a ricambiarci dei favori, quindi le persone che invece hanno delle capacità non riescono ad andare avanti. Magari uno è bravissimo però va avanti un altro o un’altra che, non so, un’altra che c’ha il culo più tondo. Queste sono le cose che molti accettano dicendo – E’ inevitabile. Il mondo va così, che vuoi fare? Ti metti contro? –. Allora accetti queste regole, dai il tuo tacito consenso, perché è più comodo. Allargando il discorso dello spettacolo, in un certo senso il problema è che noi, anche dinanzi a una conoscenza di fatti criminosi, efferati, alla conoscenza di un mondo parallelo, noi chiudiamo gli occhi, preferiamo non guardare, perché abbiamo molta paura, ci sentiamo minacciati. In realtà bisognerebbe avere più coscienza che le cose possono cambiare se cambia il nostro modo di pensare, la nostra mentalità, se ci si comincia a ribellare al sopruso, alla cosa brutta. Invece di solito la tendenza generale è di girarsi dall’altra parte.

 

A.L.: E’ vero, si vede anche nel vostro spettacolo, in cui le persone davanti alla morte rimangono indifferenti, perché ci sono abituate. La gente non è colpita davvero, all’interno, dalla morte, però le donne si vestono di nero. Questo è un modo come un altro per salvare la facciata, adottando un comportamento finto, che non rispecchia in alcun modo i veri sentimenti – o non sentimenti – che si provano momento dopo momento. D’altra parte, la situazione è ancora peggiore, perché la gente è ormai davvero abituata alla morte, alla violenza, alla mafia. Nessuno viene colpito più da niente.

A.C.: Certo. Il paese, la società, tutti accettano questa realtà che diventa la norma, la normalità. Si arriva ad accettare anche la morte di parenti come niente fosse. In questo modo, veramente la nostra società diventa una società tribale, com’era una volta, si contano i morti quasi con naturalezza… Mi viene in mente una grande fotografa, Letizia [Battaglia, n.d.r.], che fotografava i morti, le donne che abbracciavano i cadaveri…. Ci ha fatto anche una campagna Benetton con Oliviero Toscani. Mano a mano, però, fotografando sempre queste scene cruente ha avuto una sorta di disgusto, ha deciso di smettere, e ha detto, Adesso preferisco fotografare i bambini.

Almeno nei bambini c’è uno sguardo particolare, la speranza di un futuro che possa essere diverso, ed è questo che bisogna cercare, altrimenti poi ci si abitua e le cose non cambiano mai, tutto questo va avanti per sempre. I morti ammazzati sono solo un aspetto, non dico secondario, ma quello più evidente, del problema in generale. Quando non ci sono, non è detto che le cose vadano meglio, anzi, vuol dire che quel mondo ha dei capi cui gli affari vanno benissimo, che non hanno bisogno di star lì a farsi la guerra, poiché sono sostenuti da politiche forti. Mi rendo conto che è difficile ma spero – anche se so che ci vorranno degli anni –, io spero davvero che le cose cambino, poco a poco. Già in Sicilia ci sono dei piccoli segnali. Però, a proposito zona di cui parlo io – che tra l’altro è una zona che conosco pochissimo, non sono di là –, sento delle cose talmente brutte, quella è una zona ancora tabù, non si può nemmeno parlare di certe cose, non si possono fare nomi…

 

A.L.: Questo è un altro merito del vostro spettacolo: che voi abbiate il coraggio di parlare veramente delle cose, di chiamarle con i loro nomi, e coi cognomi. Di raccontare la camorra, e di non risparmiare niente. E non solo qui: sia Lei e che Balestrini lo fate anche altrove, separatamente, ognuno nella propria carriera, quindi Lei in teatro e al cinema, e Balestrini in letteratura e con la sua attività culturale tout-court. Questo tipo di arte, che si mette al servizio della cultura – intesa anche come frantumazione di questi tabù – è secondo me un’arte di un valore estremamente più alto, molto più nobile di tante altre. Fare l’arte solo per il bel suono, per la bellezza della parola, per la bellezza dell’immagine, è infatti molto diverso dal farla per denunciare qualcosa. Sono proprio coloro che hanno la vostra visibilità a dover denunciare queste cose. Ed è bellissimo che voi, costantemente, lo facciate, anche perché potete suggerire degli stili di vita nuovi, puliti, da cui la gente prenderà esempio. Riuscite a fare un’arte utile ma anche sublime, emozionante, passionale. È una specie di miracolo.

A.C.: Questa è una caratteristica soprattutto del teatro, che ha sempre avuto questa funzione, sin dal teatro greco, che era appunto un rito catartico, in cui si faceva rivivere un grosso dramma, una tragedia, in modo che il pubblico, rivivendola, potesse allontanarla, si potesse depurare. Questa funzione si sta perdendo, perché oggi la gente tende a evitare un tipo di rappresentazione più impegnativa. In realtà, quando poi le persone vanno a teatro e capitano in una situazione del genere, di solito sono contente, però evitano di decidere coscientemente di andare a vedere uno spettacolo un po’ pesante, che ti fa stare anche un po’ male. Non so quanti siano disposti a questo oggi, proprio perché abbiamo dei modelli che sono molto leggeri, che sono il cinema, la televisione, e quindi si tende a usare lo spettacolo per addormentarsi, addormentare la nostra mente. Tu lo chiami rilassarti, ma in realtà ti addormenti, sei in uno stato soporifero, anche quando poi ti diverti, come coi film di natale o simili, perchè tutto quello che vedi lo sai già, sai già di che cosa parlano questi film. Sono tutti fatti allo stesso modo, il tuo divertimento è nel riconoscerli per quello che sai già. Se invece vedi una cosa che non conosci, che non hai mai visto, questa cosa ti può anche spaventare, puoi avere un rifiuto: ecco perché non vai anche a vedere delle cose un po’ più impegnative. Io non so se a questo spettacolo ci sarà del pubblico, sono partito dall’idea che non ce ne sarà molto[3], perchè comunque quando si parla di questi temi si pensa sempre che sia molto faticoso: la camorra, la mafia, la criminalità, si pensa sempre a una serie di dati sterile, e poi il pubblico sa già di che si parla. Però questo è proprio il caso diverso, credi di saperlo ma in realtà non lo sai. E’ come quando vai a vedere un film natalizio e pensi, Chissà di cosa parlerà., ma in realtà lo sai benissimo. Poi vai a vedere uno spettacolo che parla di mafia credendo di sapere tutto, e invece scopri che non sai niente. Non sai dove sta il problema. Magari intuisci di cosa parlerà, però è diverso vederlo vivere emotivamente da una persona in carne e ossa che sta a due metri da te.

 

A.L.: E’ molto bello che il rapporto tra il pubblico e l’attore in questo caso sia (produttivamente e creativamente) cruciale. Anche perché in questo libro si racconta la realtà, senza mezzi termini, senza schermo, senza falsità, ma con un bellissimo stile lirico-narrativo di supporto. È come se la realtà servisse come materia, come fulcro creativo dell’opera, e il talento si Balestrini e il Suo servissero a darle vita, ad animarla, a renderla interessante, a renderla arte e letteratura e teatro. Cosa si prova a diventare un personaggio di questo tipo, quanto colpisce emotivamente?

A.C.: In questo caso, io più che altro mi sono calato in una situazione in cui tu sei una persona che racconta, rende partecipi gli altri di una realtà che riguarda il posto dove vivi o sei vissuto per tanto tempo. Poi ci sono anche questi gradini, in scena, che possono essere i gradini di una chiesa, di una casa, un muretto. Proprio quel tipico luogo di un paese in cui ci si riunisce per parlare, poichè il paese è organizzato in un modo molto semplice, e la gente non ha dei punti di ritrovo. Magari ha il bar centrale e la piazzetta dove ci sono le sedie, ma al di là di quel posto centrale non ci sono panchine, parchi, giardini… però ci può essere un muretto dove le persone si mettono a parlare, certe volte ci sono le aggregazioni di ragazzi che si riuniscono, chissà perchè, in un luogo appartato di una strada dove ci sono due gradini. Stanno lì e si ritrovano. Allora i gradini in scena possono essere un richiamo a quel posto, dove ti siedi e racconti delle cose tue intime, di quando stavi lì, come vivevi, che cosa facevi. Quindi, più che un personaggio sei uno che sta raccontando una storia: questo è il mio paese, qui si vive così, mio padre non voleva che rimanessi qui perché non voleva che stessi in mezzo a quella gente, allora mi manda via, però, guarda caso, sul pulmino dove viaggio io ci sono i figli di quegli altri. Allora io ho subito contatto con quella realtà, non posso fuggire da questa cosa.

Ci sono degli episodi del libro, tagliati nella versione teatrale, che raccontano praticamente queste cose. Per esempio, c’è un momento in cui alcuni giovani del paese giocano insieme ai videogiochi, e ci sono anche i figli dei boss. Solo che il ragazzo [l’io narrante, n.d.r.] finisce subito i soldi, gli altri invece continuano a giocare. Allora, uno di loro gli dà centomila lire e gli dice, Tieni, gioca sino a domani, gioca sino a quanto vuoi., e lui rimane colpito da questa cosa, ma va via. Non prende i soldi. E’ un gesto anche questo, un gesto che viene spontaneo proprio per l’impatto violento che può avere una cosa di questo genere. Invece altri prendono i soldi e si mettono lì a giocare, diventano complici, diventano servi, diventano tutto… Quello del ragazzo è un atto, un gesto molto forte in realtà, di rifiutare lo stato delle cose… E’ un gesto che poi paghi, però, perché è chiaro che poi ti ritrovi emarginato, da quelli cui tu vuoi somigliare che non ti vogliono perché vieni da lì, e dagli altri che invece ti vedono come uno che non vuole appartenere a quel gruppo, a quella tribù. Allora tutto diventa difficilissimo, un percorso faticoso, però un po’ io mi ci riconosco, perché nel mio piccolo, non in maniera così drammatica, io ho avuto la stessa esperienza, essendo nato al sud, essendo nato in Sicilia. Io però sono andato con i miei genitori al nord, ho trovato tutto su. Se fossi rimasto lì, non so cosa sarei adesso, forse lavorerei alle poste, sarei un impiegato delle poste, oppure peggio ancora, magari sarei stato più debole e allora… Non lo so, però non avrei avuto questa opportunità. In un certo senso mi riconosco, allora, in uno che non è nè da una parte né dall’altra, come tutti quelli che hanno lasciato il loro paese e sono andati via.

 

A.L.: Un’ultima domanda. Qual è la cosa che più l’ha emozionata di tutto il libro, dello spettacolo, di Sandokan – storia di camorra, un sentimento, un episodio, una scena, una cosa che le resterà per sempre e che le servirà per la vita?

A.C.: Devo dire che la cosa che più mi ha colpito sempre di questo racconto è il finale, la descrizione finale, il contatto diretto con la morte, la capacità che ha questo scrittore di portarti direttamente dentro una cosa. Chiaro che tutti sappiamo che cos’è un cadavere, però raccontato in quel modo, con quella ricchezza di dettagli, diventa una cosa concreta, la stessa differenza che c’è tra il pensare alla morte e trovarsi un morto di fronte. È diverso, rispetto a quando ne parli soltanto. E quindi la morte, la morte violenta, il corpo nella sua fisicità devastato dai proiettili é un’immagine molto forte che è, non a caso, l’ultima immagine, la goccia che fa traboccare il vaso. Dopo di che [non solo il ragazzo, ma l’essere umano che è in noi, io credo. n.d.r.] dice basta, basta, non voglio vedere più niente. Quella è la cosa che più mi ha colpito.

 

A.L. Veramente, grazie.



[1] Dalla quarta di copertina di Nanni Balestrini, Sandokan – storia di camorra, 2004, Einaudi Torino.

[2] Dopo Roma, lo spettacolo sarà messo in scena anche a Milano.

[3] tutto esaurito alla prima!, per quanto può valere il mio giudizio di spettatrice e amante della cultura, lo spettacolo è troppo bello perché non si vada a vederlo. n.d.r.